I beni confiscati alla mafia possono essere beni comuni?

Al momento no, ma  taluni (solo taluni) dovrebbero (e potrebbero) diventarlo.
I beni confiscati a membri di organizzazioni mafiose  passano oggi dalla proprietà privata  alla proprietà dello Stato, con grossi inconvenienti. Una legge potrebbe istituire per i fondi agricoli (e a fortiori per le aree boschive e pascolive) un regime diverso, che assegni i beni non al patrimonio disponibile di un ente pubblico, come accade ora, ma alla demanialità civica dei naturali del luogo, costituita per volontà di legge e sentenza del giudice.

La prova di usi civici su un territorio, quindi di diritti esistenti prima della costruzione dell’ordine statuale comporta, come è noto, la assoluta indisponibilità dello stesso, che non è passibile di usucapione. Una realtà che si descrive ordinariamente come di demanio civico: demanio perché inalienabile e imprescrittibile, civico perché non appartenente allo Stato o a una sua espressione, ma a una collettività, quella di chi effettivamente e continuativamente vive quel territorio. Per la legislazione attuale il Comune è il naturale ente di gestione del demanio civico, a meno che questo non sia proprio solo dei naturali residenti in una porzione dello stesso. Per questo caso si fa luogo alla creazione di una amministrazione separata dei beni di uso civico (ASBUC), organo rappresentativo solo di quella comunità. Una legge potrebbe, in pieno accordo con gli artt. 43 e 44 della Costituzione, destinare alle comunità locali, con un vincolo di destinazione e di indisponibilità assoluta, i terreni confiscati a organizzazioni mafiose, replicando, per quanto utile, il modello della demanialità civica.

La legge attualmente in vigore prevede un unico regime per qualsiasi tipo di bene immobile confiscato. Il d.l.  4 febbraio 2010 n. 4 ha istituito una speciale Agenzia nazionale, che si occupa di gestire i beni e di trasferirli “per finalità istituzionali o sociali” in via prioritaria al patrimonio del Comune ove l’immobile insiste, oppure al patrimonio della Provincia o della Regione. Questi enti devono poi per legge assegnarli in concessione gratuita a organizzazioni di volontariato. Solo in assenza di richieste l’ente proprietario può impiegare il bene confiscato per fini di lucro col vincolo di destinare i proventi a finalità sociali.  La terza possibilità, introdotta dal d.l. 4/2010, è che l’Agenzia venda il bene. Il rischio principale è che i beni confiscati alla mafia ritornino così nella disponibilità delle organizzazioni criminali attraverso dei prestanome.  Le cautele disposte in tal senso dal d.l. 4/2010  non sembrano sufficienti: esse si limitano (e non potrebbe essere altrimenti) a un divieto quinquennale di alienazione del bene acquistato all’asta.

Gli enti locali sono estremamente lenti nelle procedure di assegnazione, ed è così che la massima parte dei beni confiscati restano inutilizzati, a deperire e a pesare sui bilanci degli enti stessi. Questa situazione viene analizzata in un libro appena uscito: Alessandra Coppola e Ilaria Ramoni, Per il nostro bene, ed. Chiarelettere, che raccoglie molte storie di ordinaria disorganizzazione e incuria nella confisca dei beni mafiosi e del loro reimpiego.

Si potrebbe pensare che questa situazione sia ingenerata da un difetto di volontà politica, che cioè l’inutilizzo di beni il cui valore commerciale è in teoria identico ai saldi di una legge finanziaria sia l’ennesimo merito di uno Stato debole e di una classe politica incapace, e non si andrebbe troppo lontano dal vero. Non si coglierebbe però l’intera proporzione del problema, che nasce altrove, precisamente nella  convinzione che basti che lo Stato si sostituisca alla criminalità organizzata nella proprietà di un bene e tenti di sfruttarlo “per finalità sociali” perché questo possa dirsi restituito alla società.  Davvero possiamo ritenere che esistano in Italia associazioni di volontariato in numero e qualità tali da creare ricchezza da tutto l’immenso patrimonio mafioso, fatto degli immobili e delle imprese più svariate? Davvero possiamo pensare che tutti i beni sottratti alla mafia possano creare valore in sé e per sé?

La legislazione attuale si basa proprio su questo equivoco di fondo:  che il valore di mercato dei cespiti confiscati si traduca immediatamente in ricchezza attraverso il loro utilizzo. Il sistema vigente si basa così sull’implicito presupposto che un qualsiasi appartamento, palazzo o villa possano essere sempre immediatamente utilizzabili da associazioni di volontariato per le loro finalità proprie, ovunque si trovino e comunque siano strutturati, dimenticando che questi beni hanno bisogno di una continua e onerosa manutenzione cui non si può supplire sempre solo con il lavoro gratuito, l’unico capitale di queste organizzazioni. Lo stesso per le aziende: la legislazione attuale presume, contro ogni logica economica, che un’azienda costituita da una famiglia mafiosa al fine di riciclare denaro o  di percepire indebitamente contributi pubblici  divenga immediatamente competitiva una volta gestita da persone oneste.

La realtà ci parla di immobili abbandonati alla fatiscenza, o di Comuni che devono letteralmente inventarsi di sana pianta associazioni e cooperative sociali per gestire immobili loro assegnati, ma di cui non sanno cosa fare. E’ il momento di pensare ad un altro modello, accettando che questo possa essere fatto di più regimi diversi, non solo di quello della proprietà, privata come pubblica, ma anche della proprietà collettiva.