Gli usi civici dell’Isola di Dino. Il Consiglio di Stato pare dimenticare l’esistenza del Commissario liquidatore. Consiglio di Stato Sez. IV, Sentenza 12 febbraio 2015, n. 744.

Il Consiglio di Stato conferma in appello una sentenza altrimenti censurabilissima, la pronuncia del T.A.R. Calabria –  Catanzaro, Sez. I, n. 934 del 29 giugno 2011, sui supposti usi civici dell’Isola di Dino.

La vicenda è ben riepilogata dalla narrativa delle due pronunce: con delibera regionale n. 201 del 2005, l’intero territorio dell’Isola di Dino veniva accertato come di uso civico, e assoggettato alla categoria a) (bosco e pascolo) ai fini della l. 1766/1927.

Tutto qui, va detto, atteso che la narrativa delle pronunce si attarda a ricordare che il contratto con cui il Comune di Praia a Mare vendette l’intera isola nel 1962 prevedesse “molteplici condizioni servitù in favore della cittadinanza,tra le quali il diritto di approdo e attracco, il diritto di passaggio su strade e piazze”: diritti, questi, che nulla hanno a che fare con gli usi civici, i quali oltretutto non possono essere costituiti per previsione contrattuale, almeno non dopo l’entrata in vigore della l. 1766 del1927, che vieta espressamente la ricostituzione di nuovi diritti collettivi.

La società ricorrente fece quindi istanza al Comune ai sensi della L.R. Calabria n. 18 del 2007 per l’affrancazione degli usi civici. Il Comune la respinse, con una motivazione che le stesse sentenze definiscono “sintetica”. La società presentò quindi due ricorsi: uno per l’annullamento della delibera n. 201/2005 con cui si accertavano gli usi civici, l’altra contro il diniego dell’affrancazione.

Il T.A.R. Catanzaro respinse il ricorso contro il Comune di Praia a Mare, nel quale fu riproposta la censura verso la delibera regionale, affermando che questa doveva ritenersi tardiva, e che comunque il suo annullamento sarebbe stato irrilevante, visto che il provvedimento comunale non conseguiva a quel provvedimento, ma aveva oggetto diverso. Il Comune non accertava l’esistenza di usi civici, ma negava la loro liquidazione nelle forme della L.R. 18/2007 poiché non erano ” intervenuti accadimenti tali da ritenersi idonei a modificare la sussistenza della situazione accertata nella relazione del dott. Ricucci e fatta propria dalla deliberazione regionale n. 201/2005.”

Nel merito, il T.A.R. respingeva la tesi della ricorrente, per cui il Comune non avrebbe alcuna discrezionalità nel decidere sulla liquidazione degli usi civici ai sensi della legislazione regionale, che dovrebbe conseguire di diritto una volta accertati nell’istante il possesso dei requisiti di legge.

Il Consiglio di Stato fa oggi propria questa ricostruzione, rigettando l’appello, con due argomenti che destano più di una perplessità.

Il primo: sarebbe stato legittimo per il Comune motivare con un semplice richiamo alla delibera regionale “anche in considerazione del brevissimo lasso di tempo decorso tra la detta delibera e il provvedimento qui impugnato, tale da rendere estremamente improbabile che un vincolo, accertato appena tre anni e mezzo prima, potesse già essere divenuto meramente “formale” nel senso sostenuto dalla istante”.

Il secondo: giusta la valutazione di tardività dell’impugnazione della delibera regionale (“che è il vero atto lesivo della posizione giuridica soggettiva della società istante”) poiché, “in quanto impositiva di un vincolo reale sulla proprietà della società interessata (ossia l’uso civico), avrebbe dovuto essere tempestivamente impugnata dal proprietario del suolo interessato”.

L’uso civico – concordi finora dottrina e giurisprudenza – non è un vincolo che viene posto in via amministrativa, ma un diritto reale diffuso preesistente all’ordinamento giuridico attuale che, prima di essere o meno liquidato nelle forme oggi devolute alla legislazione regionale, deve essere accertato dal giudice naturale precostituito dalla legge per questo scopo, il Commissario liquidatore degli Usi civici competente per territorio. Il provvedimento con cui la P.A. effettua la ricognizione degli usi (in genere definito “verifica demaniale” dalle legislazioni regionali) non può accertarli in modo definitivo e indiscutibile, né può “crearli”, come la terminologia adottata dal Consiglio di Stato sembra suggerire.

L’accertamento definitivo dell’uso civico avviene solo con la sentenza del Commissario, che avrebbe dovuto essere adito dalla Regione a questo scopo, ma cui può rivolgersi in qualsiasi momento il proprietario privato per lo scopo opposto. Ciò consegue a un principio finora indiscutibile nella giurisprudenza amministrativa e civile, cui viceversa il Consiglio di Stato sembra sottrarsi: vi è giurisdizione esclusiva del Commissario liquidatore ogni qual volta la pretesa fatta valere nel giudizio coinvolga, seppur indirettamente, la questione della qualitas soli, l’esistenza cioè di usi civici s un dato terreno.

Non era quindi onere del ricorrente impugnare la delibera nei 60 giorni dalla pubblicazione, ma onere del T.A.R. e poi del Consiglio di Stato denegare la propria giurisdizione in favore di quella commissariale. Il fatto che la ricorrente avesse deciso erroneamente la via del giudizio amministrativo piuttosto che quella del giudizio commissariale non muta i termini della questione, visto che la stessa, nonostante il giudicato amministrativo sul provvedimento del Comune negatorio della liquidazione, ha ancora il diritto di rivolgersi al Commissario per chiedere una pronuncia di inesistenza degli usi civici sull’isola.

Cons. Stato Sez. IV, Sent., 12-02-2015, n. 744