La retorica dei beni comuni alla prova di Gezi Park

Alberi e libertà. Una riflessione sui beni comuni a proposito di Gezi Park.

 

Nelle proteste che sono culminate con l’occupazione del parco Gezi e della piazza Takşim a Istanbul vi sarebbero tutti gli ingredienti per dare sfogo alla retorica dei beni comuni. Le proteste per una società più libera e democratica e la resistenza verso il disegno di islamizzazione della società portata avanti dall’AKP, partito al potere da ormai 11 anni traggono spunto e si organizzano nella difesa di uno spazio pubblico, il parco Gezi, al centro delle operazioni di speculazione immobiliare con cui l’AKP è riuscito a rendersi fedele una casta privilegiata di operatori economici.

Analizzando più da presso la vicenda, tutto sembra prestarsi all’uso della categoria della difesa del bene comune per rappresentare questa vicenda politica: non ultimo l’elemento di un potere che, al fine di cambiare la società per renderla più prossima ai propri disegni, si serve del cambiamento del territorio, della memoria che in esso è insita, dei simboli che esso porta con sé.

Sotto questo profilo, Erdoğan non sembra quindi voler fare cosa diversa da qualsiasi riformatore settecentesco, sia pure con intenti molto diversi. Egli vuole mutare la natura fisica di un luogo, per modificarne in realtà la natura giuridica, portando lo stesso da proprietà indisponibile a bene patrimoniale. In questi termini l’uso della categoria del bene comune per il parco Gezi potrebbe non apparire scorretto, ed appare quindi strano che i massimi esponenti del genere non abbiano tratto da questa vicenda sostegno alle proprie tesi. Tranne pochi  blog, nessuno sembra però aver approfittato dell’occasione.

Non a caso.

La vicenda degli alberi del Gezi Park, ad un’analisi più attenta, rivela tutta la sua incompatibilità con la nozione generica, programmaticamente antieconomica e antigiuridica di bene comune, che anima la moda corrente. Qui il bene comune è difatti un luogo fisico che ha finora consentito l’esercizio di taluni diritti di libertà individuale, dal passeggiare al riunirsi, e di cui adesso si vorrebbe cambiare radicalmente la struttura al fine di escluderne taluni, ed eliminare il presupposto per l’esercizio di altri. Il mutamento fisico del luogo serve a convertire una serie di comportamenti sociali in altri diversi.

Passeggiare per un parco – dato cui non si presta spesso la dovuta attenzione – non è la stessa cosa che passeggiare per i volumi di un centro commerciale: alla libertà di un’azione priva di un fine specifico si sostituisce la costrizione che è comunque insita in un comportamento che risulta finalizzato dal luogo in cui si compie.

La trasformazione della natura del luogo rende così incomprensibili rispetto ad esso una serie di attività sociali che, prima, potendovisi liberamente svolgere, erano per questo considerate oggetto di altrettanti diritti. L’assemblea che si convoca su passa parola, in reazione ad un evento subitaneo, è possibile nel parco, sarebbe ridicola nello spazio di comunicazione tra un supermercato ed un negozio di calzature.

Cosa ha dunque impedito una generalizzata lettura delle vicende turche sulla categoria dei “beni comuni”?

Essenzialmente due aspetti. Il primo: tutti i diritti che il governo turco di oggi vorrebbe limitare, e che la società ha sempre esercitato nel parco Gezi erano precedentemente garantiti dalla proprietà pubblica di questi medesimi beni, dal loro appartenere a titolo originario allo Stato, attraverso una delle sue qualsiasi specie.  Il diritto di passeggiare, di incontrare persone, di riunirsi garantito da questi luoghi era insito nella loro storia, nella loro pratica quotidiana, trovava espressione giuridica nella sottoposizione degli stessi a uno statuto dei diritti, obblighi e discipline proprio della titolarità statale del bene, indotta e giustificata dalla sua natura.

L’accusa che le folle di dimostranti oppongono al governo è quella di un uso di parte del bene pubblico, ma da questo non fanno discendere una presunta titolarità del bene stesso a qualcuno o a qualcosa che sia prima dello Stato. Ciò che centinaia di migliaia di persone, di ogni età e condizione sociale, diverse per credo religioso e convinzione politica hanno chiesto con la loro lotta è la garanzia delle minoranze, in altri termini che lo Stato sia cosa di tutti, e che in nome di tutti venga governato da chi gode del favore della maggioranza della popolazione in quel dato momento storico. Elemento indissolubile della nozione corrente di “beni comuni” oggi di moda e, invece, il rifiuto stesso dell’idea di Stato come “casa di tutti”.

In questo elemento risiede il secondo aspetto che ha reso la vicenda del parco Gezi  invisibile ai teorici nostrani del “bene comune”: la variegata moltitudine che lo ha difeso a prezzo di un’indicibile violenza lo ha fatto perché ha visto in esso un mezzo, e allo stesso tempo un simbolo, di lotta politica. Nell’Italia di oggi si parla invece di “beni comuni” per sottrarre luoghi che le cose alla discrezionalità politica, per renderne titolare una in descritta “comunità” che, per essere anteriore allo stato, dovrebbe custodire taluni luoghi (boschi, montagne, litorali e, ovviamente, anche parchi) dai guasti delle scelte della maggioranza e di chi, volta per volta, la rappresenta.

Non è un caso che quindi la vicenda del parco Gezi sia scivolata indenne sui nostrani teoreti dei “beni comuni”: chi è stato in piazza a prendersi i gas lacrimogeni e gli spray urticanti sapeva cosa voleva.